Il Vortice di Trump
di SKA su Cultura, Notizie Commentate il 17 Novembre 2024
Diciamocelo subito, perché questa è una di quelle cose che vanno messe sul tavolo immediatamente, come il bicchiere di vino che lo zio conservatore americano passa a cena del Ringraziamento, convinto che chiunque sappia leggere un giornale sappia anche “cosa sta succedendo al Paese”. La rielezione di Donald Trump, nel 2024, non è sorprendente. E non perché fosse inevitabile (nessuna vittoria elettorale lo è mai), ma perché è il culmine di qualcosa che stava fermentando da molto tempo, e che una larga parte della società americana ha ignorato così a lungo che ora si ritrova di fronte al risultato con un misto di stupore e disorientamento. Tipo quei funghi neri che crescono nel bagno di uno studente universitario: li noti solo quando è troppo tardi.
La domanda, però, non è perché Trump abbia vinto. La vera domanda, quella più viscerale e difficile da formulare, è questa: perché c’è qualcosa nella cultura americana che sembra desiderare questa vittoria? Non tanto gli individui che postano ironicamente foto dei loro gatti su Instagram e si indignano nei commenti di “The Atlantic”, ma la collettività americana, quella nebulosa disorganizzata che prende forma alle urne e nelle strade, una massa fluida che si chiama “popolo”.
Ci sono molte risposte facili, e quasi tutte sono sbagliate. Si può dire che sia colpa della disinformazione su Facebook, delle camere d’eco dei media conservatori, della polarizzazione crescente, e queste spiegazioni non sarebbero completamente fuori strada. Ma sono troppo superficiali. La verità è più complicata e, come quasi sempre, più deprimente.
John Stuart Mill scrisse che “il prezzo della libertà è la vigilanza eterna,” il che sembra una di quelle frasi che i professori di liceo incorniciano nei loro uffici per ricordarti di leggere il giornale. Ma Mill non aveva previsto che, nel XXI secolo, “vigilanza” significasse subire un flusso infinito di notifiche, notizie, tweet, meme, e post clickbait che promettono di spiegarti “perché il mondo sta andando in pezzi” in meno di trenta secondi. Non c’è vigilanza nel caos. E Trump, che lo si voglia o meno, ha capito qualcosa che altre figure politiche non hanno saputo cogliere: il caos funziona. Non perché sia vero, o giusto, ma perché cattura l’attenzione, tiene incollate le persone agli schermi e dà l’illusione che qualcosa stia accadendo, anche se quel qualcosa è distruttivo.
Trump, in questo senso, è il personaggio perfetto per un mondo che sembra aver abdicato all’idea di verità come fondamento della politica. Non perché gli americani non ci tengano alla verità – molti di loro ci tengono ancora – ma perché la verità, quella vera e complicata, non si adatta ai cicli di notizie di 24 ore o ai meme da sei parole. Trump non è un errore del sistema americano: è una sua funzione principale.
Ma c’è qualcosa di ancora più profondo e scomodo da considerare. Trump non è solo un simbolo del declino intellettuale e culturale dell’America (anche se, certo, lo è). È anche un sintomo di qualcosa di umano, e quindi universale: la disperata sete di significato. La sua retorica – per quanto brutale, divisiva e talvolta palesemente assurda – non è mai vuota. Ha un ritmo, una visione (distorta, certo, ma una visione), e, soprattutto, una promessa. Make America Great Again non è solo uno slogan: è un sogno confezionato per un pubblico che, visceralmente, si sente alienato, derubato e – diciamolo – inutile.
La vittoria di Trump riflette una crisi non solo politica, ma culturale. L’America contemporanea sembra intrappolata in un ciclo di consumo compulsivo: di beni, esperienze, e soprattutto di informazioni. E il problema del consumo, che si tratti di cibo, media o ideologia, è che non sazia mai. La rielezione di Trump è il riflesso di una società affamata: di sentirsi vista, di appartenere a qualcosa, di avere un leader che dia voce alla rabbia e alla paura.
Ma qui emerge il punto centrale: anche se è Trump a incarnare questo fenomeno, la sua figura non è l’unico problema. Non basta immaginare che un “altro Trump” – magari più educato o più liberale – sarebbe migliore. E non è sufficiente costruire messaggi politici più accattivanti o tecnicamente impeccabili. La vera sfida è creare una società in cui le persone non abbiano bisogno di un Trump.
E cosa significa? Significa affrontare le profonde disuguaglianze che affliggono il tessuto sociale americano. Significa costruire spazi in cui le persone possano parlare davvero e ascoltare, anziché limitarsi a gridare contro uno schermo. Significa accettare che guarire le ferite di un paese diviso richiede tempo e impegno, e non c’è soluzione rapida o slogan che possa sostituirlo. E sì, significa spegnere gli schermi, ogni tanto, per ricordare che esiste una realtà al di fuori della prossima breaking news o dell’ultimo tweet del Presidente.
La rielezione di Donald Trump, vista dall’Europa, appare sia come un monito che come un’occasione. È un monito del fatto che le contraddizioni culturali e politiche dell’America si stanno intensificando, trascinando il resto del mondo in un vortice di instabilità. Ma è anche un’opportunità per osservare più da vicino le dinamiche che hanno portato a questo risultato e interrogarsi su cosa queste significhino non solo per gli Stati Uniti, ma per ogni società che si considera moderna e democratica.
La lezione è dolorosamente semplice: non si può risolvere una crisi culturale con una soluzione politica. E mentre l’America si confronta con le conseguenze della sua scelta, il resto del mondo può solo osservare, imparare e, sperabilmente, evitare di cadere nello stesso vortice. Guardando Trump, non si guarda solo un uomo o un movimento, ma il riflesso di ciò che accade quando la sete di significato diventa una sete che niente può spegnere. E se c’è una soluzione, sarà lunga, lenta e terribilmente noiosa. Che è forse la cosa più difficile da accettare.