Il lato nascosto della costola

di Reverendo SenzaDio su L'ora di religione il 13 Novembre 2024

Da dove iniziare quando si parla di Genesi, traduzioni sbagliate e patriarcato? Forse dal principio, perché è lì che tutto diventa caotico in modo sorprendentemente sistematico. La storia della creazione di Eva, che secondo il racconto biblico sarebbe nata dalla costola di Adamo, è uno di quei miti fondanti che hanno lasciato impronte così profonde nella cultura occidentale da sembrare parte del nostro DNA culturale. Ma ecco il colpo di scena: sembra che ci sia stato un errore di traduzione. O meglio, più che errore, potremmo definirlo una scelta linguistica poco accurata, che però ha avuto conseguenze monumentali.

Il termine ebraico tzela (צלע), tradizionalmente reso come “costola”, non significa necessariamente una singola costola anatomica. In molti contesti biblici, come nel libro dell’Esodo, tzela è usato per indicare un “lato” o una “metà”. Ad esempio, l’arca dell’alleanza è descritta come dotata di “lati” (tzelaot), a dimostrazione che il termine ha una portata semantica ben più ampia della mera anatomia. E allora perché “costola”? È possibile che i primi traduttori abbiano scelto un’immagine concreta, facilmente comprensibile, sacrificando però un significato potenzialmente più simbolico e profondo. Forse non immaginavano che la loro interpretazione avrebbe influenzato la costruzione di una società dove le donne sono state considerate, per secoli, derivazioni secondarie dell’uomo.

Se accettiamo l’idea che tzela significhi “metà”, il racconto della creazione assume un tono completamente diverso. Eva non sarebbe stata “ricavata” da una piccola parte del corpo di Adamo, ma creata come sua metà esatta, pari in valore e dignità. La parità tra uomo e donna, quindi, sarebbe stata insita nel testo biblico fin dalle sue origini. Tuttavia, questa lettura non è quella che ha prevalso, e ciò ci porta a un punto più ampio: come le traduzioni, le interpretazioni e le scelte linguistiche possono plasmare intere strutture culturali.

E qui entra il parallelo ironico: questa è una storia di editing, ma non nel senso creativo. È la storia di un piccolo errore interpretativo che ha avuto l’impatto di un bestseller mondiale, ma senza i diritti d’autore. Pensateci: un’errata traduzione di tre lettere ebraiche ha contribuito a rafforzare un sistema patriarcale che, nei secoli, ha limitato le donne a ruoli subordinati, giustificando il tutto con una metafora anatomica che, letteralmente, non regge.

Se vogliamo approfondire questa dinamica, la letteratura è piena di esempi di narrazioni che sembrano solide e indiscutibili, ma che crollano sotto l’analisi critica. Uno di questi è Sapiens di Yuval Noah Harari, che sottolinea come molte delle strutture sociali che consideriamo “naturali” siano, in realtà, costruzioni culturali. Il patriarcato, argomenta Harari, non è una necessità biologica, ma una narrazione che le società hanno perpetuato. E cosa c’è di più potente di una narrazione che ha Dio stesso come autore?

Questa questione non è solo accademica. Ha implicazioni reali, tangibili. Le interpretazioni patriarcali della Bibbia sono state usate per giustificare disuguaglianze, oppressioni e stereotipi di genere per secoli. La donna come “costola” dell’uomo è diventata un simbolo culturale di subordinazione, un modo per relegare la figura femminile a un ruolo derivativo, marginale. Se invece Eva fosse stata creata come metà, come lato, allora il racconto sarebbe un manifesto precoce di parità. E la storia culturale dell’Occidente avrebbe potuto essere radicalmente diversa.

Qui, però, entra in gioco la questione più ampia: anche se sappiamo che la traduzione di tzela potrebbe essere sbagliata, cosa facciamo con questa informazione? Come rielaboriamo un’intera visione del mondo costruita su una base traballante? La verità è che molte persone non vogliono sapere che ciò che considerano sacro potrebbe essere stato influenzato da traduttori che lavoravano con dizionari incompleti e un contesto culturale totalmente diverso.

Forse, la vera sfida è accettare che il significato di una storia non sta solo nel testo, ma in come scegliamo di interpretarlo. L’avvento della meritocrazia di Michael Young, un romanzo distopico che esplora le conseguenze di una società basata esclusivamente sul “merito”, ci offre una lezione simile. Anche se il libro voleva essere una critica, molte persone lo interpretarono come un elogio del sistema meritocratico. Le storie, una volta raccontate, sfuggono al controllo degli autori, e questo vale anche per la Bibbia.

Riconoscere che Eva potrebbe essere stata la metà di Adamo, e non una sua derivazione secondaria, non cambia solo il modo in cui leggiamo la Genesi. Cambia il modo in cui pensiamo alla nostra storia collettiva, alle strutture che abbiamo costruito e alle ingiustizie che abbiamo giustificato. E, forse, ci spinge a interrogarci su quante altre “costole” nascondono, in realtà, interi lati mai visti.

Alla fine, la storia di tzela non è solo una questione di traduzione. È un monito su quanto sia facile accettare una narrazione senza metterla in discussione, e su quanto sia difficile, ma necessario, riscriverla. Come ci insegna la letteratura, la nostra capacità di reinterpretare le storie – sacre o meno – è ciò che ci rende davvero umani. E se dobbiamo iniziare da qualche parte, perché non da una costola che potrebbe essere un lato?

Fonti: 

https://www.gliscritti.it/blog/entry/2332

https://www.branham.it/joomla/studiobiblico/FU%20PROPRIO%20UNA%20COSTOLA.pdf

https://www.biblistica.it/wp-content/uploads/2016/10/2.-La-costola-di-Adamo.pdf

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Giornalista, web designer e pubblicitario. Da blog di protesta negli anni in cui i blog andavano di moda, questo spazio è diventato col tempo uno spazio di riflessione e condivisione. Per continuare a porsi le giuste domande ed informare se stessi.