20 anni dopo, il G8 di Genova resta ancora una ferita aperta – THE VISION
di SKA su Cose dette da altri, Notizie Commentate il 19 Luglio 2021
Dai fatti del G8 sono ormai passati vent’anni e anche chi allora non era nato, oggi ha l’età per votare. Io stessa, nel luglio del 2001, non avevo ancora compiuto quattro anni. Cosa rimane di quello che fu definito dal pm Enrico Zucca come “la più grave violazione dei diritti umani occorsa in una democrazia occidentale dal dopoguerra”? e da Amnesty International come “una violazione dei diritti umani di dimensioni mai viste nella recente storia europea”. Chi, come me, ne ha sentito solo l’eco, ne intuisce la gravità nella fronte aggrottata e i muscoli tesi di chi invece era presente e continua a testimoniare. Raccontare ciò che accadde, gettare luce su ciò che venne liquidato in fretta da una classe politica connivente, è l’unica arma che è rimasta alle vittime che hanno visto i loro carnefici rimanere impuniti, quando non fare addirittura carriera nei corpi di polizia.
Si parla di trauma generazionale, di perdita dell’innocenza, di macelleria messicana. Le immagini che rimangono sono quelle sfocate dei pestaggi, il suono è quello delle urla di terrore. E poi un nome che riecheggia: Carlo Giuliani. Tutto questo rimane. Eppure, non è seguita nessuna rilevante conseguenza giudiziaria o politica. Un enorme rimosso storico. A vent’anni dai fatti, è bene trovare parole migliori per raccontare e ricordare ciò che accadde, per rendere giustizia alle vittime, identificare i colpevoli e connotare quei generici “fatti”.
Genova era stata scelto per ospitare la conferenza dei capi di Stato delle otto economie più importanti del mondo. Durante il summit, i leader dei Paesi membri del GB dovevano discutere di importanti questioni di politica ed economia internazionale. Un enorme movimento di contestazione si era organizzato per essere presente e manifestare il proprio malcontento nei riguardi di una politica sempre più estranea alle rivendicazioni dei cittadini. Essere a Genova durante le giornate del summit era un fatto simbolico, uno strumento del popolo, garantito dalla costituzione, per tentare di imporsi come interlocutore politico. Si contestava il neoliberismo, la globalizzazione sfrenata, la precarizzazione del lavoro, la violazione dei diritti umani e la condizione di povertà estrema in cui versavano i due terzi del mondo a favore del benessere di una minoranza di Paesi ricchi, temi che a distanza di vent’anni continuano a riecheggiare nelle piazze piene di manifestanti di tutto il mondo. Il fronte della contestazione, genericamente definito “noglobal” era ampio e variegato: c’erano i vecchi della sinistra extraparlamentare italiana, gli esponenti delle associazioni umanitarie, i cattolici, i pacifisti della rete Lilliput, Manitese, i cobas, Attac, i centri sociali. E poi c’erano gli studenti, i giovani venuti da ogni parte del mondo per esprimere – si dirà poi “ingenuamente” – la fiducia in un mondo guidato da ideali di equità e giustizia.
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